orso castano : le oservazioni di Migone sembrano serie, ma , dopo aver giustamente criticato, la deregulation finora imperante, non sembra aver trovato o , comunque, proporre soluzioni pratiche al problema disoccupazione e, quindi, un nuovo welfare che affronti il problema. Ovviamente il problema e' di ardua soluzione, ma questo "parlare" un poì professorale, senza lanciare sollecitazioni a chi sopporta il problema perche' si organizzi per affrontare autonomamente il problema, si ferma , dando cosi' la sensazione di un letterato fuori della mischia, che "sdottora" lasciando nella difficoltya' chi porta il fardello del lavoro e della solitudine
Perché abbiamo bisogno di un nuovo welfare state
Dopo che per oltre un decennio il pensiero economico e politico economico mainstream aveva fatto del nesso «smantellamento dei sistemi di garanzie sociali (welfare state) e deregolamentazione del mercato del lavoro» un tutt’uno inscindibile, giustificato dalla necessità di ridurre i costi pubblici, eliminare i disincentivi al rientro immediato nel mondo del lavoro dei disoccupati e rendere più celere il turnover fra occupati e senza-lavoro, recentemente la stessa letteratura economica ha cominciato a riconsiderare la «necessità» di tale legame (Atkinson, 1999; 2001). Nel nostro paese, diversi autori (Reyneri, Negri) mentre ricordavano come le garanzie sociali apparissero profondamente connesse con la sicurezza del «posto», segnalavano anche gli inconvenienti di un tale modello di gestione dei rischi sociali, alla luce delle trasformazioni che si avanzavano sul mercato del lavoro. In effetti, sulla spinta della crisi economica e delle necessità imposte dal processo di unificazione europea, anche in Italia una serie di provvedimenti deregolazionisti del mercato del lavoro sono stati introdotti. Oggi è dunque possibile trarre un primo bilancio dell’esperienza deregolazionista e dei nessi esistenti fra il modello dominante di gestione dei principali rischi sociali (il modello di welfare assicurativo italiano) e il modello di regolazione vigente sul mercato del lavoro. La deregolazione avvenuta nel nostro paese, infatti, ha seguito abbastanza da vicino le orme dell’esperienza spagnola – la quale ha già datouna pessima prova di sé (Bentolila, Dolado, 1994) – deregolando le protezioni del lavoro per i nuovi ingressi, mentre ha lasciato inalterate le protezioni del lavoro dipendente in vigore per coloro che erano entrati nel mercato del lavoro nelle decadi precedenti. L’esito di un tale modello (o meglio: di un tale scambio implicito, come lo definisce Soskice, rifacendosi alla letteratura neo-corporatista) è stato il mantenimento di un sistema di forti garanzie per parte del lavoro dipendente, a fronte di una segmentazione per coorti anagrafiche del
mercato del lavoro stesso, con i giovani assolutamente penalizzati sia dalla deregolazione «parziale e selettiva» (Esping-Andersen, Regini, 2000) del mercato del lavoro sia dalla – per altri aspetti necessaria e
meritoria – riforma del sistema pensionistico contestualmente introdotta a partire dai primi anni ’90.
Questo andamento, che abbiamo descritto con particolare riferimento al nostro paese, è comunque diffuso in tutti i principali paesi dell’Europa centrale e meridionale, costituendo probabilmente la risposta comune che le democrazie di mercato europee appartenenti alle aree franco-tedesca e mediterranea hanno dato al problema della flessibilità dei mercati del lavoro.
La precarizzazione dei nuovi ingressi nel mercato del lavoro rappresenta oggi un fenomeno sostanzialmente riconosciuto dalla letteratura (Barbieri e al., 1999; Contini e al., 2000; Istat, 2000). A questo
proposito, va ricordato come, in sé, il fatto che sempre più primi impieghi siano «atipici», a termine, di tipo parasubordinato e/o semi-autonomo, non necessariamente costituisca un elemento negativo per
una valutazione dei provvedimenti stessi né per l’evoluzione del mercato del lavoro italiano. Ciò che è invece essenziale, è poter valutare se e quanto i nuovi lavori «non garantiti» costituiscano delle entry ports
o delle job traps, cioè se coloro che attraverso tali impieghi fanno il loro ingresso nel mercato del lavoro riescano a migliorare in seguito la loro posizione professionale e contrattuale o se invece restino «intrappolati» in occupazioni «di serie B» (Barbieri, 2002b).Inoltre, è oggi assolutamente indispensabile poter stabilire se e quanto il peso delle preesistenti linee di disuguaglianza sociale operanti (disuguaglianze di genere, di istruzione e capitale umano, di origine sociale e territoriale) venga aggravato o meno dalle nuove forme di occupazione non protetta introdotte nel nostro paese (come nel resto d’Europa). È abbastanza evidente infatti il rischio che le nuove disuguaglianze occupazionali fra coorti, originate sul mercato del lavoro
dai provvedimenti deregolativi introdotti, si sommino alle preesistenti disuguaglianze strutturali, rinforzandone i meccanismi attraverso cui queste già oggi operano. Su questo punto, i risultati di ricerca disponibili sono ancora insoddisfacenti. Mentre taluni autori sembrano indicare che – per il caso italiano – ci troviamo in presenza di semplici entry ports (Schizzerotto, 2002) altre fonti fanno apparire quadri più foschi in linea con quella che è stata l’evoluzione delle occupazioni «a garanzie limitate» sia in Europa che negli stessi Stati Uniti (Istat, 2000; Kalleberg, 2000).
I dati di fonte Istat conosciuti sembrerebbero accreditare le valutazioni più «negative» degli esiti nel medio periodo delle nuove occupazioni non protette: una quantità crescente di lavoratori (e soprattutto
di lavoratrici) a diversi anni di distanza dall’ingresso nel mercato del lavoro resterebbe «intrappolata» in attività a bassa protezione sociale. Il problema, che riguarda tutti i livelli di istruzione, diviene particolarmente vessatorio se si considerano i loop fra lavori precari e disoccupazione: in questi percorsi ciechi si concentrano soprattutto i meno istruiti. Il rischio, quindi, di una crescente esclusione sociale dei soggetti più deboli appare oggi reale, specie in considerazione dello specifico modello di welfare «sub-protettivo» (Gallie, Paugam, 2000) che caratterizza l’Italia (a differenza di quanto accade invece in altri paesi europei con sistemi di welfare meno escludenti).La diffusione dei «nuovi lavori» a garanzie ridotte introduce una questione che attiene al livello di cittadinanza sociale che desideriamo per il nostro paese. Esiste ed è ormai improcrastinabile la necessità di fornire un accesso alla cittadinanza sociale a coloro che in tali «nuovi
lavori» spenderanno la propria vita lavorativa, fornendo loro sia un accesso ai diritti sociali «classici» (pensione) sia una protezione rispetto ai rischi sociali nuovi. Si pensi, ad esempio, all’aumento dei passaggi da un lavoro all’altro, alle nuove esigenze di formazione scolastica e professionale con aggiornamenti continui, alla diffusione di lavori troppo poco pagati per consentire di mantenere una famiglia, a
fronte di condizioni di vita mutate (aumento della longevità, instabilità dei matrimoni, diffusione delle famiglie monoparentali con figli minori a carico, e così via). L’opinione pubblica ha registrato solo due punti critici nel rapporto lavoro-welfare che sono stati politicamente drammatizzati: le pensioni e «l’articolo 18». Ma i fronti dell’adattamento ad un modo di vivere e di lavorare diverso sono molto più numerosi. In conclusione, è venuto forse il momento di chiederci se sia ancora compatibile con le trasformazioni economiche e sociali in atto un modello di welfare «lavoristico-assicurativo» che, per definizione, richiede lunghe e ininterrotte carriere contributive e che comunque lascia sulle imprese un onere di responsabilità sociali cui – venuta
meno la stabilità macroeconomica al pari della grande impresa fordista – le imprese oggi non sono forse nemmeno più oggettivamente in grado di far fronte. È forse utile, infine, ricordare come il nostro paese spenda troppo poco e troppo male per finanziare il suo modello di protezione sociale, a fronte di una contribuzione che risulta decisamente sbilanciata a sfavore delle imprese e del lavoro dipendente – rispetto al resto del mondo del lavoro – e di una redistribuzione dei benefici di welfare altrettanto sbilanciata a favore delle vecchie generazioni, le quali talvolta o più spesso – per la natura corporativa e particolaristica del sistema di protezione sociale – non hanno neppure contribuito in misura proporzionata ai benefici che oggi traggono.I problemi aperti dalle trasformazioni sociali e dall’emergere di nuovi rischi sociali richiedono nuove soluzioni e nuovi investimenti. Pur richiamando l’importanza di un maggior investimento economico sul sistema di protezione sociale e di un contemporaneo rimodellamento dello stesso secondo principi più adatti alla gestione delle nuove configurazioni di rischio, si può comunque osservare come la stessa costruzione e allargamento di forme già esistenti di diritti sociali e/o di «diritti di prelievo sociale» (si pensi ai periodi di aspettativa retribuita per attività di studio o auto/formazione, ai congedi parentali, ecc.) rappresenterebbe un primo, reale, passo verso la direzione di un ripensamento delle forme del welfare che estenda anche ai nuovi soggetti del «nuovo mondo del lavoro» l’accesso alla cittadinanza sociale. Ma è comunque chiaro per noi che sarà sempre più la collettività nel suo insieme a doversi far carico di un nuovo modello di cittadinanza sociale La quota italiana di spesa in politiche sociali sul Pil è più bassa della stessa media Eu15 in materia (25,2 versus 27,3 nel 2000). La stessa Uk spende di più per il suo modello di welfare (residualistico). Soprattutto, una quota oscillante fra il 60% e il 70% delle spese sociali (a seconda delle modalità di calcolo e di spese incluse al numeratore: evitiamo al lettore gli aspetti contabili. Eurostat riporta una quota del 63,4 nel 2000) è destinata al pagamento delle pensioni di anzianità/reversibilità.
Si pensi ai vari «fondi speciali» Inps che, dopo aver accumulato gestioni fallimentari concedendo pensioni letteralmente d’oro ai propri iscritti, hanno riversato sulla gestione ordinaria Inps – cioè sulla collettività – i loro deficit. Differenti, invece, le soluzioni adottate nel caso dei paesi anglosassoni, in cui si è sostanzialmente proceduto ad una complessiva deregolazione del mercato del lavoro erga omnes per così dire, nonché nei paesi dell’area scandinava, dove la protezione nei confronti dei rischi sociali è tradizionalmente stata considerata come un diritto legato alla cittadinanza e non allo status lavorativo.Un portato decisamente «nocivo» della pubblicistica su «post-fordismo», «società del rischio» ecc. è dato dal fatto che tali approcci sembrano ritenere – pur in assenza di qualsiasi analisi empirica in grado di suffragarlo – che le «classiche» dimensioni di disuguaglianza sociale siano in via di superamento o comunque stiano perdendo la loro capacità di segmentazione sociale. Si tratta di una sciocchezza, oltre che di un grossolano errore sociologico. Tutte le analisi serie sull’agire dei meccanismi di disuguaglianza sociale, infatti, dimostrano come le «classiche» dimensioni strutturali della disuguaglianza (genere, istruzione, origine sociale, classe occupazionale, area territoriale,tanto per ricordarne qualcuna) abbiano mantenuto pressoché inalterato il loro effetto
di stratificazione sociale (Gallie, Paugam, 2000).